Storia e Ricerche

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Salvatore Tramontana

 

La “Platea” di Vincenzo Naymo

Note e riflessioni sulle fonti calabresi del Cinquecento*

 

Ho avuto il piacere di conoscere Vincenzo Naymo proprio a Roccella, durante i lavori del IX Congresso Storico Calabrese dedicato a Rivoluzione e antirivoluzione nella Calabria dal 1799. Mi fece omaggio di un volumetto su Pergamene angioine dell'archivio Carafa di Roccella: 1313-1407, pubblicato nel 1998 dalla Facoltà di giurisprudenza di Catanzaro. Un volumetto che ho letto con molto interesse e attenzione e che qui desidero ricordare non solo perché nella premessa e annunciata la pubblicazione della platea, ma perché offre al lettore - e sul piano pratico-operativo, non teoretico - gli elementi fondamentali di una metodologia, cioè il rigoroso sistema su cui va impostata qualsiasi ricerca, che quando riguarda trascrizioni di fonti non può non essere strettamente connessa a conoscenze tecniche ben precise. E prima di tutte alla conoscenza della lingua latina, che non era quella ciceroniana studiata al liceo, ma la lingua che aveva subito parecchie trasformazioni lessicali e stilistiche, e presentava intrinseca diversificazione non solo col mondo classico, ma con un modo di parlare e di scrivere che aveva smarrito il legame strettissimo col conservatorismo letterario e acquisito invece le coloriture delle tradizioni locali. Cosa che rende talvolta difficile interpretare il significato delle parole di vari testi scritti in aree geografiche disomogenee per tradizioni, per cultura, per modelli di vita.

Accanto alla lingua latina chi trascrive le fonti di età medievale e rinascimentale deve ben conoscere la paleografia, cioè la disciplina che permette di leggere e interpretare le forme grafiche di determinate epoche; e deve conoscere pure la diplomatica, vale a dire la scienza che consente di analizzare i documenti nei loro caratteri interni ed esterni e nelle loro valenze giuridiche, amministrative, culturali. Deve cioè avere una preparazione filologica che nelle università ha avuto sempre funzione selettiva.

In questo volumetto in cui sono trascritte sei pergamene del fondo Carafa, ma di età precedente all'arrivo dei Carafa in Calabria, si individua già, come dicevo, la metodologia di Naymo, la sua capacità di leggere e interpretare le fonti del tardo Medioevo, di cogliere di ognuna le caratteristiche esterne, i supporti di cui è costituito il materiale scrittorio, gli aspetti paleografici e linguistici, le interlinee e le spaziature, le valenze diplomatiche giuridiche, il significato storico. Cioè il contenuto che Naymo espone ed esamina non solo in rapporto al documento che lo esprime, ma in rapporto alla dinamica socio-economica e politica, cioè al contesto, appunto all'ambiente in cui il documento era stato redatto. Ed emergono così, dalla lettura del libretto, preziose notizie sulla topografia di Gerace, di Castelvetere, di Grotteria, sulla presenza di taluni cognomi e di alcune famiglie sia nobili che di media condizione (erano comunque possessori di terre), sulla conformazione dei suoli, su corsi d'acqua e torrenti, su alcuni tipi di coltivazione (seminativi, seminativi alberati), su mulino ad acqua, su un gruppo di Villani, cioè contadini non del tutto liberi, sugli ebrei, sulla frequenza di casalini, su una casa palazzata ecc.

Questa breve premessa aiuta dunque a comprendere la sensibilità culturale di Naymo, il suo modo di lavorare, la sua preparazione tecnica e filologica, il suo approccio coi documenti, coi quali riesce a instaurare un dialogo che gli permette di ricostruirne sia la consistenza materiale in cui prendeva corpo l'elaborazione grafica, sia la loro capacità di trasmettere informazioni. Ne è significativa e importante testimonianza il grosso volume per la cui presentazione è stato organizzato questo incontro. Un volume, va detto subito, che colpisce anche per la sua mole (CXXVIII + 552 pp.), per il formato (21 cm. X 29), per il suo peso Kg 2,500. E colpisce soprattutto chi, come me, ha voluto leggerlo sincronicamente al volumetto snello e agile sulle pergamene angioine. Il confronto editoriale fra due testi fa subito ricordare i versi di Dante che nel X del paradiso accennano ai grandi libri da banco, e la lettera di Petrarca Luigi Marsili in cui il cantore di Madonna Laura parla di un libellum «comodissimo al trasporto per il suo piccolo spessore» e assai «pratico per essere portato in giro», tale cioè, precisava, da diventare «una cosa sola con la mia mano».

Questo volume di Naymo - e lo si ricava dal sottotitolo - è la scrupolosa trascrizione diplomatica di un documento che si conserva nell'archivio di Stato di Napoli, sezione archivi privati, fondo Carafa di Roccella, casella 31, N° 1, intitolato Platea generale di Giovanni Battista Carafa marchese di Castelvetere e conte di Grotteria. È costituito di 237 carte pergamenacee rilegate, cioè di 474 facciate caratterizzate da scrittura corsiva notarile cinquecentesca nella quale Naymo ha individuato cinque mani diverse, una certa eleganza grafica, maiuscole decorative ai capoversi, costanti interlinee di mm. 8, frequente uso di abbreviazioni per contrazione e per troncamento. Una scrittura le cui peculiarità possono essere viste dal lettore nelle 12 riproduzioni fotografiche inserite nel testo, e precisamente nelle pagine 6, 72, 141, 190, 250, 254, 349, 378, 421, 424, 468, 502. Pagine qui puntigliosamente elencate perché inspiegabilmente non incluse nell'indice generale del volume. Alla voce illustrazioni corrispondono infatti, nelle pagine CXVIII-CXXII, solo le riproduzioni fotografiche di alcuni aspetti del paesaggio del territorio dei Carafa e dei resti di impianti edilizi, fra i quali sono almeno da ricordare il palazzo Carafa di Roccella e i ruderi della chiesa di San Lorenzo in località Buzzerrona.

È anche acclusa al volume la riproduzione visiva dello stato feudale dei Carafa nell'anno 1534 ricostruita sulla base della carta d'Italia dell’IGM a scala 1:50000 con le ricognizioni sul territorio fatta dallo stesso Naymo è da Marilisa Morrone. Nella carta sono indicati con colori diversi: 1) in bleu i confini esterni dello Stato; 2) in verde pallido il confine interno fra contea è marchesato; 3) in verde le strade antiche e medievali individuate e ricostruite; 4) in rosso i toponimi menzionati nella platea e individuati sul territorio.

Si tratta di uno strumento prezioso per la ricostruzione e individuazione del territorio e del paesaggio studiato. La fotografia aerea avrebbe certo permesso di costruire il paesaggio nella sua dinamicità, cioè, diceva Emilio Sereni «nelle forme che l'uomo nel corso dei secoli e ai fini delle sue attività produttive ha impresso al paesaggio naturale». Ma già questa carta, sostenuta dalle ricognizioni sul terreno, offre la possibilità di poter selezionare, sul piano politico e amministrativo su quello del territorio, degli insediamenti, del paesaggio agrario, i numerosi elementi di varie epoche che, variamente combinate tra loro, danno in immagine l’impianto dello Stato dei Carafa anche in rapporto alla situazione attuale.

Il volume di Naymo è dunque, anzitutto, un prezioso strumento di lavoro, un regalo fatto agli studiosi, e non solo agli storici, per la ricostruzione di un territorio, di un ambiente, nel secolo XVI. Un ambiente visto appunto, oltre che nei fatti politico-amministrativi, nella sua identità geografica, nelle sue componenti etniche, nella sua lingua, nella sua cultura, nei suoi modi di abitare, di organizzarsi, di produrre. La trascrizione di documenti è d'altronde l'ordinata e programmata offerta di testimonianze coeve di un dato periodo, una miniera inesauribile di informazioni alle quali attingere attraverso metodologie le più diverse attraverso domande la cui valenza è tanto più produttiva quanto più esse sono spregiudicate.

La storia del resto - è stato sempre ribadito fin da Erodoto - si fa con i documenti, si fa appunto con le fonti. Ciò non vuol dire certo che basta andare in archivio, consultare le fonti e fare un libro di storia. Ma vuol dire che senza le fonti, che sono una componente fondamentale per la ricostruzione delle vicende, non è possibile fare storia. E per questo dobbiamo essere grati a quanti, come l'amico Naymo, offrono lavori di questo tipo. Lavori che comportano fatica enorme, preparazione tecnica, conoscenze filologiche e linguistiche, pazienza infinita. E anche il rischio di essere sottoposti a facili - e direi gratuite - critiche da parte di quanti, per eventuali e possibili sfasature nella trascrizione, specie per quel che riguarda la fedeltà alla punteggiatura, all'uso delle maiuscole o delle minuscole, al rispetto degli errori insiti nel testo, avanzano irreversibili condanne. Nei riguardi delle edizioni di documenti si sono avuti e purtroppo si hanno ancora, pure tra i “dotti”, parecchi pregiudizi fra i quali è assai significativo e molto diffuso il preconcetto che spinge a chiedere: val poi la pena di faticare tanto per trascrivere, con fedeltà assoluta, a ogni singola parola, a ogni particolare segno, il testo di un documento? Ha offerto una risposta Giorgio Pasquali, il quale, nel suo famoso trattato sulla Storia della tradizione critica del testo, annotava: che uno studioso del quale non riferisce il nome soleva criticare quanti perdevano tempo per trascrivere fedelmente i documenti. Ma lo stesso studioso, precisava Pasquali, «si adirava se un suo articolo veniva pubblicato con errori di stampa, mostrando per la sua prosa quella sensibilità che rifiutava di considerare legittima quando si rivolgeva a testi di tempi passati».

I documenti, cioè le fonti, che non sono certo solo quelle scritte, sono dunque le testimonianze coeve di un determinato fatto, di una determinata epoca, di un ambiente. Ma che tipo di fonte è questa offerta in fedele trascrizione dall'originale, da Naymo? Lo dice lo stesso autore a p. VII, dove si legge testualmente: «il presente volume contiene l'edizione integrale del testo originale lingua latina della platea del marchesato di Castelvetere e della contea di Grotteria, redatta nel 1534 ai tempi del marchese Giovanni Battista Carafa».

Il testo trascritto è dunque una platea. Ma cosa è una platea o, per essere più precisi, cosa si intendeva, nel Mezzogiorno peninsulare del secolo XVI, col termine platea?

La platea - dal greco plateia, gli arabi la indicavano con la parola garaid (giarida) - è un documento pubblico, redatto in forma pubblica, e collegato spesso a un privilegio, per testimoniare garantire beni e diritti a un signore, a un monastero, a una chiesa. Con le platee, in Calabria, specie nell'età di Carlo V, si tendeva - a richiesta degli stessi signori - al recupero di territori e beni perduti e di antichi diritti caduti in disuso. È, in certo qual modo, uno strumento giuridico che richiama i criteri del De resignandis privilegiis di età normanna e di età sveva. Al contrario però dei De resignandis - che erano di iniziativa regia e tendevano a controllare i privilegi della feudalità per eliminare gli abusi ai danni del demanio - le platee del secolo XVI miravano alla recupero di territori, beni, diritti che la grande nobiltà feudale – a “torto o a ragione”, precisa Naymo - aveva perduto.

Un'operazione gradita alla Corona, la quale, secondo Naymo (p. XIX), dopo avere efficacemente ridimensionato la feudalità nel suo prestigio politico-militare, le consentiva un rafforzamento economico, giuridico e di potere, all'interno dei singoli feudi.

Questa considerazione è assai importante. Mette a fuoco un punto fondamentale forse non ancora risolto della storia del Mezzogiorno. E non solo, credo, della storia del Mezzogiorno del secolo XVI. Un punto che impone, è fuor di dubbio, ulteriori ricerche e riflessioni sulla classe dirigente costituita in grandissima parte da quanti traevano la loro forza e il loro potere e prestigio dal possesso della terra, sulla dinamica economica e sulle articolazioni sociali e, innanzitutto, sull'identità della monarchia. La quale era concentrata tutta su esigenze politiche di grandi ambizioni mediterranee ed europee, e sostanzialmente estranee agli interessi del Mezzogiorno italiano e della Sicilia. Estranee ma interessate alle sue funzioni strategiche, economiche e fiscali, e al suo pacifico controllo, cioè al progressivo consolidarsi di una classe di potere organizzata secondo le gerarchie, le regole, i cardini di un impianto feudale con venature oligarchiche. Una monarchia che disgregava la dinamica di un tessuto sociale, non lo articolava. Una monarchia che consegnava gli abitanti alla feudalità locale. Feudalità federata colla monarchia anche attraverso rapporti pattizi, ma feudalità che rimaneva padrona in casa sua. Il re riceveva omaggio e fedeltà, riconoscimento a regnare e assumeva in contropartita, anche con le platee, l'impegno a difendere le prerogative feudali e il sistema che le legittimava.

Questo particolare e sostanziale rapporto fra monarchia e Mezzogiorno lo evidenziava già, con prosa nitida ed elegante, Angelo Di Costanzo, nella sua Historia del regno di Napoli pubblicata fra il 1572 e il 1581, quando scriveva che Ferrante «coi baroni trattò amichevolmente» e rafforzò le loro prerogative feudali perché, spiegava appunto Ferrante all'ambasciatore del duca di Milano, i feudatari erano necessari in quanto ponevano un nesso strettissimo fra «la fortuna delle sorti del re» e «il comportamento e inaffidabilità dei baroni». Un comportamento che, precisava Ferrante, egli considerava decisivo per la vita della monarchia, e per questo, aggiungeva, si augurava di trasmetterlo ai figli e ai figli dei figli come lo aveva ricevuto da Alfonso il Magnanimo, suo padre. Parole, queste, che sono pietre, e dietro le quali si colgono - o almeno io colgo - la concretezza di un processo storico-culturale del Mezzogiorno in cui è mancato un efficace coordinamento fra città è monarchia, e in cui, pure alla presenza, in talune aree, di nuclei urbani e popolari, componenti fondamentali del potere rimanevano la Corona e la nobiltà. La monarchia infatti - anche dopo la repressione della ben nota rivolta dei baroni, e anche con Carlo V - aveva giocato le sue carte per inchiodare il baronaggio alla Corona, non per distruggerlo. E le platee, dice giustamente Naymo, rappresentano la testimonianza, forse la più significativa, di un compromesso, di una forma pattizia fra Corona e feudalità. Sulla pelle, ovviamente, di una situazione che gli veniva via via più disarticolata è caratterizzata da un progressivo generale impoverimento che abbassava il tenore di vita e diminuiva il potere d'acquisto di gran parte della popolazione. Naymo lo lascia capire chiaramente, quando, a p. XV, scrive che all'interno dei suoi possessi il marchese Carafa «si fece promotore di una politica tendente alla formazione di latifondi, anche di natura non feudale, ai danni della piccola proprietà privata cittadina». Il «caso dell'area nei pressi del feudo di Santa Maria delle Grazie, in territorio di Motta Gioiosa, risulta emblematico», egli precisa. «Fra il 1528 e il 1534 infatti, con acquisti e permute da cittadini gioiosani e grotteresi, il marchese Carafa formò un grande appezzamento di terreno di quaranta salmate chiamato Lo Feo, da cui il feudo di Santa Maria delle Grazie».

Considerazione, questa di Naymo, sulla quale bisogna riflettere, anche con l'aiuto di ulteriori ricerche su aree diversificate e non solo della Calabria. Considerazione che io credo di notevole rilievo per ricostruire i rapporti fra Corona e feudalità, specie se la si pone in relazione a quel che lo stesso Naymo osserva nelle pp. CIX-CX, quando scrive: «Non può essere frutto del caso il fatto che furono […] molti di coloro che avevano subito gli espropri, a denunciare il marchese per presunti crimini e a condurlo sul patibolo nel 1552. Si può così affermare - precisa Naymo - che la redazione della platea, con le sue reintegre, infranse una sorta di equilibrio interno che si era consolidato a Castelvetere negli anni precedenti, frattura che condusse in breve tempo il marchese in rovina. Ma il responsabile indiretto - aggiunge Naymo - non poteva che essere l'imperatore: per seguire le sue folli imprese egli si era indebitato fino al collo».

Anche per Naymo il cerchio si chiude su questo drammatico intreccio fra Corona e feudalità. Tra Corona impegnata in una politica estranea gli interessi del Mezzogiorno italiano e una classe di potere che si ostinava a sostenere un sistema di tipo feudale non più adeguato ai tempi, e nel cui ambito l’appartenenza al feudo valeva più di ogni competenza e di ogni sviluppo perché rimaneva legata all'economia della rendita e non a quella dell'impresa. Per «recuperare parzialmente il deficit provocato dalle sue imprese - conclude Naymo - il sovrano aveva consentito al Carafa, attraverso la redazione della platea, di aumentare la pressione sui vassalli. Questi ultimi, stanchi delle angherie, avevano finito per denunciarle a Carlo V, il quale, approfittando della denuncia, non si era lasciato sfuggire l'occasione per sbarazzarsi del marchese, e conseguentemente dei debiti che aveva nei suoi confronti”.

Guardiamo comunque più da vicino le platee. Osserviamole nelle loro caratteristiche diplomatiche, amministrative, politiche. Per la Calabria, dice Naymo, si conosce solo qualche platea, e indica quella relativa ai beni di Santo Stefano del Bosco la cui stesura veniva portata a termine nel 1533, è pubblicata ora a cura di Pietro De Leo, e quella, sempre del 1533, relativa all'abbazia florense di San Giovanni in Fiore (p. XIX, nota 65). Certo, ce ne saranno altre. Io mi permetto di segnalare, per la Calabria, un'altra platea più antica e relativa ai beni concessi, nel 1481, da Covella Ruffo, contessa di Altomonte e Coriolani e dal figlio Antonio di Sanseverino, al monastero di Santa Maria della Consolazione di Altomonte. Di questa platea - alla quale accenna Francesco Russo, nel II volume del Regesto Vaticano - è offerta la trascrizione da Francesco Giunta negli "Atti dell'Accademia di Lettere e Arti di Palermo" del 1984-1985.

Guardiamo più da vicino, si diceva, la platea di Giovanni Battista Carafa studiata da Naymo. Il testo manoscritto, costituito, si è visto, di 237 carte pergamenacee, si presenta diviso in due grandi sezioni che corrispondono una al marchesato di Castelvetere, l'altra alla contea di Grotteria, cioè alle due grandi entità territoriali che formavano quello che comunemente è detto lo "stato" dei Carafa. Ognuna di queste due entità si presentava, a sua volta, divisa in 4 sezioni: 1) descrizione dei feudi, suffeudi, fondi, mulini, case possedute da nobili e cittadini con incluse le eventuali sentenze di reintegrazione dei beni usurparti (mi sembra improprio il termine di cittadino; la platea mi sembra che parli di Homines e talvolta di personae: p. 36); 2) inventario dei beni dei diritti spettanti a Giovanni Battista Carafa, marchese di Castelvetere e conte di Grotteria; 3) regesto dei privilegi dell'intero stato dei Carafa; 4) descrizione dei confini interni ed esterni allo stato.

È impossibile, in una presentazione, passare in rassegna i numerosi dettagli che vengono ben precisati da Naymo nell'introduzione. Chi vuole conoscerli non ha che da leggere il volume: la prosa di Naymo, nella sua semplicità di fondo, è chiara, scorrevole, convincente. Mi limiterò a qualche considerazione. E per primo che dai controlli giuridicamente accurati portati avanti dai commissari «esperti di legge» e dalla commissione da loro presieduta, non sembra sia emersa alcuna reintegrazione di beni tenuti da famiglie nobili: ogni aristocratico fu infatti in grado di documentare possessi, privilegi e diritti con antichissime concessioni sovrane. Io non ho certo elementi per contestare tale affermazione registrata dalle fonti: l'esperienza mi suggerisce però che, specie per la feudalità laica, non era facile disporre sempre delle carte di investitura. L'infinità dei falsi e il complesso problema della verità storica e della verità diplomatica nei documenti non originali ne sono testimonianza. Testimonianza che invita quantomeno alla prudenza. Ulteriori ricerche su tale complessa e ingarbugliata questione potrebbero riservare qualche sorpresa: Naymo stesso accenna qua e là – nelle pp. XXV e XXVI, per esempio - alla presenza di clamorosi falsi.

Diversi invece i problemi relativi ai possessi burgensatici, molti dei quali - per mancanza di adeguate e legali giustificazioni - furono confiscati e reintegrati nei beni del Carafa. Si trattava certo di beni usurpati per i motivi i più vari, ma tutti legati alla mancanza di strumenti giuridici che ne giustificassero il possesso, cioè il passaggio di proprietà (e anche su tale questione sarebbe da approfondire la ricerca).

Oltre che per questi motivi la platea è soprattutto importante perché offre un quadro assai articolato della dinamica sociale ed economica del territorio cui si riferisce. E prima di tutto della consistente diffusione dell’enfiteusi. Pure a favore di donne: l'11% delle enfiteusi registrate, secondo il calcolo di Naymo, erano gestite da donne.

L’enfiteusi, è noto, è lo strumento giuridico col quale si concedeva, al lungo termine, un diritto reale su un proprio bene è, si badi, in cambio dell'impegno dell’enfiteuta ad apportare migliorie. I documenti relativi all’enfiteusi vanno studiati attentamente anche perché talvolta erano contratti di prestiti simulati. Nascondevano cioè prestiti a interesse condannati dalla chiesa. Chi si trovava in difficoltà prendeva denaro in prestito e per sfuggire alle pene spirituali e giuridiche, fingeva di cedere al prestatore il proprio bene che riprendeva poi in enfiteusi, impegnandosi a pagare un canone di affitto che in realtà era il tasso di interesse.

Mi avvio a concludere questo lungo discorso: ma la scrupolosa fatica di Naymo meriterebbe ben altro, perché dalla platea emergono moltissime altre notizie: sulle qualità dei terreni, sui boschi, sui castagneti, sulle terre incolte, su quelle coltivate, sulle terre aratorie e su quelle alberate, sugli oliveti, sulle abitazioni spesso con stalla attigua, sulle botteghe, sulle chiese, sui forni, sui mulini ad acqua, sulle grotte - si trattava di insediamenti rupestri? - e infine sui dati toponomastici e onomastici. Notizie tutte presenti nella platea, ma che possono essere individuate anche senza leggere la platea. Naymo ha lavorato per noi e ci ha offerto accurati indici toponomastici e onomastici. Indici nei quali mi sembra non siano stati registrati i dati - importanti - della sua introduzione. Introduzione nelle cui note vengono indicati i riferimenti alla platea con i ff. recto e verso del manoscritto e non anche con le pp. del volume. Perché? Un segno di molestia? Dopo questa fondamentale trascrizione la platea, fra gli studiosi, sarà certamente indicata come platea Naymo.


 

* Il testo riproduce la presentazione del volume di Vincenzo Naymo, Uno stato feudale nella Calabria del Cinquecento. La platea di Giovanni Battista Carafa marchese di Castelvetere e conte di Grotteria (1534), Edizioni Corab, Gioiosa Jonica 2004, pp. CXXVIII + 552 con 24 illustrazioni e una carta topografica, tenuta a Roccella Jonica e organizzata dal Comune e dalla Deputazione di Storia Patria per la Calabria.

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