Storia e Ricerche

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"Jus primae noctis", storia o storiella? (14.12.2004)

 

L’indagine storica, così come qualsiasi altra forma di ricerca scientifica, è sottoposta a dinamiche ben precise che comportano, col trascorrere degli anni, l’acquisizione di nuovi dati che intervengono a integrare con successo, e talvolta anche a rivedere, le conoscenze riguardanti un determinato argomento. Cadrebbe in un banale errore chi ritenesse che la ricostruzione o l’interpretazione di un evento del passato, una volta ultimata, costituisca una sorta di enunciato indiscutibile, un dato immutabile che successive ricerche non possano rivedere, segnalando eventuali contraddizioni ed incongruenze. L’individuazione e l’analisi critica di nuove fonti storiche, documentarie o materiali, costituiscono i fattori determinanti di questa dinamica, la cui attuazione conferirà al lavoro dello storico quel carattere scientifico da cui lo stesso trarrà la sua effettiva validità in ambito storiografico.

Se ribadire quanto appena considerato risulta del tutto superfluo in ambito accademico e, più in generale, in quello della ricerca storica di tipo scientifico, la cosa è invece tutt’altro che inutile a livello del sedicente storico, del cosiddetto storico di paese o dell’uomo della strada. In quest’ultimo ambito il confine fra storia e leggenda, fra realtà e luogo comune è di fatto così impalpabile che il valicarlo risulta un’operazione del tutto lecita, al punto che viene costantemente compiuta con estrema disinvoltura.

Uno dei temi che per eccellenza in passato ha prestato e tuttora continua a prestare il fianco a simili operazioni è sicuramente quello del feudalesimo meridionale. Da sempre le vicende dei feudatari, e soprattutto di quelli del Sud Italia, hanno costituito il tema preferito dei cultori di storia e dei cronisti locali. Su di esse la fantasia di costoro si è sprecata, profondendo instancabilmente così tanta opera, che il ritratto che di loro si è delineato comunemente, è quello di esseri viventi peggiori delle bestie.

Crudeli, insaziabili, egoisti, sfruttatori, pronti a depredare i poveri vassalli, i feudatari, insomma, non furono altro che barbari, rimasti tali per secoli. Essi erano soltanto capaci di compiere abusi; ciò rappresentava un tratto costitutivo e imprescindibile della loro natura. Non c’è paese antico in Calabria che non possa vantare nei suoi trascorsi storici un barone cattivo e crudele, pronto ad esercitare i suoi terribili usi ed abusi contro poveri innocenti. È un vero peccato, però, che all’abbondanza di soprusi che si ricordano non corrisponda una altrettanto ricca messe di documenti utili a comprovarli, sicché i presunti storici risultano nella stragrande maggioranza dei casi non in grado di documentare attraverso fonti attendibili quanto sostenuto nei loro lavori. Attraverso un rigoroso lavoro di verifica, così, gran parte dei loro assunti risultano privi di qualsiasi fondatezza e si sgretolano come una costruzione sulla sabbia.

Siamo nel 2004; eppure a comprovare quanto questa communis opinio sui feudatari sia invalsa ancora oggi, è servito un articolo pubblicato sulla pagina culturale della Riviera, alcuni mesi or sono e, precisamente, sul n. 23 del 6 giugno scorso. In Ius primae noctis, questo il titolo dell’articolo, si propina ancora una volta all’ignaro lettore la solita minestra, con il condimento si sempre, per giunta corredato di un’infallibile sicumera.

In verità non escludo affatto che quanto asserito in quell’articolo sia proprio ciò che il lettore volesse leggere, abituato com’è fin dall’infanzia a prendere per oro colato simili storielle; tuttavia per atto di onestà intellettuale verso la ricerca storica, occorre far valere la voce delle fonti storiche, i documenti con i quali si fa la storia, le fonti, insomma, che spesso parlano chiaro ma che solo pochi sanno o sono disposti ad ascoltare.

L’articolo in questione tratta, fra i tanti, del più banale dei luoghi comuni e degli stereotipi che circolano sul conto dei feudatari: quello della pratica del fantomatico ius primae noctis, cioè del diritto che i feudatari avrebbero detenuto – dunque addirittura un uso, non un abuso – di trascorrere con le spose la notte successiva alle nozze di ogni giovane coppia, nei centri soggetti al loro dominio, uso effettivamente deprecabile qualora ne fosse accertata la pratica. Naturalmente non vi è alcun documento, di natura feudale e non, che attesti l’esistenza di questo diritto in un qualsiasi feudo, giacché, ovviamente, tale diritto in quanto uso non è mai esistito (A. Carile, G. Fasoli, Documenti di storia feudale). Del resto, neppure il Winspeare (Storia degli abusi feudali), che fu colui che attuò l’abolizione del regime feudale nel Regno Napoli e non può essere considerato di certo un apologeta della feudalità, lo annovera fra gli usi e neppure fra gli abusi compiuti dai feudatari. Non vi si ritrova alcuna codificazione in cui venga sancito un tale diritto, semplicemente perché tale diritto non è mai esistito, essendo parto esclusivo delle grandi menti di cui si è scritto. Naturalmente non si può certo escludere che qualche barone, in quanto potente, si sia approfittato di qualche fanciulla, ma tali forme di sopraffazione, purtroppo non estranei alla natura umana, interessavano, allora come oggi, varie categorie di potenti; dunque non possono assolutamente riferirsi esclusivamente alla classe baronale in quanto tale, al punto da farne uno dei tratti peculiari e distintivi di quest’ultima. Del resto le molestie sessuali sul lavoro o talune forme di mercificazione del sesso, talvolta imposte con la forza a fini di carriera nell’ambito della moda o del cinema, sono tristi fenomeni fin troppo comuni ed attuali, di cui certamente non possono essere incolpati i defunti baroni.

Nel menzionato articolo vengono riproposti, fra i tanti, alcuni presunti casi di pratica dello ius primae noctis, fra cui quello attribuito al duca di Ardore, Orazio Gambacorta, il quale, secondo il cronista locale (Gliozzi), la cui versione viene accettata acriticamente dall’autore dell’articolo, il 19 settembre 1681 sarebbe stato assassinato per vendetta da un giovane marito, la cui sposa sarebbe stata costretta dal duca a trascorrere con lui la prima notte di nozze. Orazio Gambacorta avrebbe così pagato con la vita “tutt’i delitti di cui s’era macchiato”. Che si tratti di una favola, peraltro brutta, lo dimostrano facilmente le fonti documentarie. Basterà ricordare infatti, che Orazio Gambacorta, II duca di Ardore era nato il 15 dicembre 1665 ed effettivamente morto, ma di malattia, il 19 settembre 1681. Il “terribile” e “malvagio” duca, a cui furono attribuiti tanti misfatti, non fu altro che un ragazzino di salute cagionevole, morto a poco più di 15 anni di età, dopo aver perduto il padre di 43 anni e, nel 1678, anche la madre, Maria Lucifero, deceduta ad appena 30 anni. Questa è la storia, quella vera, di Orazio Gambacorta. Su di lui mi piace trascrivere per intero ciò che ha scritto lo storico M. Pellicano Castagna (La storia dei feudi e dei titoli nobiliari della Calabria, 1983, p. 133): “Sarebbe questo fanciullo, non ancora sedicenne, quel malfamato Duca di Ardore di cui il cronista locale, raccogliendo insulse leggende popolari, vorrebbe far credere che «scontò con la vita tutt’i delitti di cui s’era macchiato» e che sarebbe finito di morte violenta. Ma, come in tanti altri casi analoghi, non esiste la minima traccia che possa confermare o semplicemente lasciare supporre simili fatti”.

Ad Orazio successe la sorella Maria Silvia, anch’essa di salute cagionevole, morta il 28 settembre 1688 a soli 18 anni di età. C’è da chiedersi come mai il bravo cronista non abbia attribuito a quest’ultima chissà quale terribile misfatto; si potrebbe affermare che fu graziata per l’appartenenza al sesso femminile. Con la scomparsa di Maria Silvia, la famiglia Gambacorta si estinse né è mai esistito un Gaetano Gambacorta da mettere in relazione ai duchi con cui la schiatta si sarebbe estinta nel 1725. Il feudo passò prima (1690) nelle mani della famiglia Spina, poi fu acquistato all’asta (1696) dai Milano Franco D’Aragona. Il castello, non più abitato, ha fatto la fine miseranda che tutti conosciamo.

Quello narrato non è che uno dei tanti esempi di manipolazione della verità storica a favore di una leggenda la cui sopravvivenza continua ad essere cara a molti. L’aver smentito, in questa come in altre sedi, la fondatezza di talune radicate ma errate convinzioni sul nostro passato, a poco servirà, giacché nel volgere di qualche mese, su un qualsiasi periodico, il dilettante di turno perpetuerà per l’ennesima volta l’opera di disinformazione, propinando la sua “verità” ad ignari lettori che si compiaceranno della lettura di una storia fatta esclusivamente di soprusi, di oppressori e di poveri sudditi costretti a subire senza colpo ferire. Fortunatamente la ricerca storica, quella vera, al riparo delle seduzioni della fantasia e del luogo comune, procede la sua incessante opera sulla strada della conoscenza del passato, con le sue ombre, certo, ma anche con le numerose luci che l’analisi critica delle fonti quotidianamente ci ha insegnato a scorgere.

 

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